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THE WOLF OF WALL STREET Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 febbraio 2014
 
di Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Matthew McConaughey, Jon Favreau (Stati Uniti, 2013)
 
TAXI DRIVER, TORO SCATENATO, FUORI ORARIO, QUEI BRAVI RAGAZZI, L'ETA' DELL'INNOCENZA, CASINO... sono così tanti i capolavori di Martin Scorsese, indiscusso, travagliato, carismatico punto di riferimento del cinema moderno americano, che quasi non ci si azzarda a ricordare come da più di vent'anni non gli riesca l'opera al disopra di ogni sospetto.

Non si tratta delle sue encomiabili intenzioni, ci mancherebbe considerati oltre tutto i tempi: descrivere la parabola, autobiografica anche se non proprio inedita del Madoff di turno, semiserio broker cocainato che sbarca dal nulla per farsi portatore della solita rincorsa forsennata al Sogno. O all'incubo, piuttosto: proporre carta straccia definita secondo i casi azione, titolo spazzatura, prodotto derivato e via dicendo ai creduloni, incassando en passant la follia del 50 percento di commissione. Costruirsi in un attimo (e alla lettera nel film) un letto di bigliettoni per scoparci sopra le più allettanti escort di Manhattan. Jordan Belfort, predatore a dire poco sfrenato nella deriva post reaganiana, fine settimana ai Caraibi, elicottero sul tetto e droga a vagonate. Sesso, droga e un rock and roll sempre più particolare: dal quale uscirne (con la miseria di 36 mesi di galera, alla faccia della moltitudine di poveretti ridotti in miseria) grazie soltanto alla delazione agli FBI dell'intera, ormai poco allegra compagnia.

THE WOLF OF WALL STREET non è altro che QUEI BRAVI RAGAZZI qualche generazione e un paio di filosofie dopo. Con un nuovo genere di gangster, ancora più corrotto nella sua sfrenata buffoneria del precedente, la sniffata per via anale che inaugura la pellicola e la sbrigativa copula sbrigativa alla toilette al posto della mitragliata d'epoca.

Certo, non è mutato il bersaglio dell'autore: la medesima angoscia nei confronti di un mondo nel quale l'urgenza della finalità ha cancellato per sempre la coscienza (“ Un'amoralità più patinata, socialmente, essere un gangster non è più accettabile: in compenso, farsi dei soldi grazie a qualsiasi mezzo offerto dal sistema è perfettamente o.k..”), dove i confini fra lealtà e tradimento sono indistinti, il calcolo del doppio gioco viene eretto a regola. L'evoluzione è però anche nello stile, e forse nell'ispirazione del cineasta: perché la farsa del gesto e la precipitazione della visione sembrano avere progressivamente sostituito una grandiloquenza che sola gli apparteneva, in quanto eroica. I “goodfellas” nati in quell'energia commossa erano brava gente che tentava inutilmente di farsi accettare dai prepotenti, martiri alla ricerca di auto punitive redenzioni, carnefici assuefatti dalla sopraffazione fino all'autodistruzione. Ora, l'autolesionismo di quei tassisti, pugili e bricconcelli vari, così consci della loro corruzione da essere tentati di guadagnarsi una fetta di paradiso attraverso un calvario privato, l'universo scorsesiano per definizione insomma, è ormai impossibile (“ Per questo nuovo genere di lupi, da questa sorta di avidità irrefrenabile ogni redenzione è ormai esclusa”) .

Tradotte in ben tre ore d'iperbole espressiva queste legittime angosce arrischiano però di produrre un effetto di troppo pieno; che è un po' semplice assolvere in quanto presunto riflesso dell'orgiastica rincorsa al denaro dei protagonisti. Diverte pure la conta che qualcuno ha fatto all'interno della tradizionale fertilità del dialogo scorsesiano, 506 fuck, 69 shit, 18 motherfucker, 8 dick, 7 bitch e 4 pussy; meraviglia la forza visionaria, quando non ridondante, di diverse sequenze (una fra tutte, l'infinita carrellata della dolly sopra l'ufficio sconfinato dei traders plaudenti); come spettacolare (ma certe smorfie non saranno di troppo?) è l'impegno degli attori, a cominciare naturalmente da quello ciclopico di DiCaprio. Ma priva com'è di una vera e propria progressione drammatica, di un'indagine consequenziale nell'intimo dei personaggi quella sorta di statica esuberanza contemplativa sfida continuamente la ripetizione; peggio, di scivolare dalla caricatura a una assoluzione, certo involontaria.


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